Non so se avete mai visto una collezione di anatomia patologica.
È una collezione di barattoli di vetro trasparente, di tutte le dimensioni, che contengono parti malate del corpo umano.
Un piede diabetico sdraiato all’insù, un rene policistico aperto a metà, un polmone avvinto dalla pleurite, un teratoma appallottolato con peli e denti che sbucano beffardi. I più impressionanti sono i feti, conservati tutti interi, e i neonati: sono gemelli siamesi, anencefali, sirene, polifemi e se siete fortunati trovate persino i rarissimi feti Arlecchino. Anche le teste di adulto fanno impressione. Si vedono i nasi mangiati dai tumori della pelle, le esostosi che deformano il viso, le neoplasie del cavo orale. Per non parlare degli scaffali dei genitali, squadernati lì, aperti, messi in mostra in tutta la loro fragilità che non ha niente di volgare.
A volte poi trovate anche animali (non solo le tenie estratte dagli intestini dei malati, ma anche gatti, topi, lucertole, galline e cani con malattie analoghe a quelle umane) e intere raccolte di calcoli renali, che sembra di aver sbagliato museo e di essere finiti nella sezione di geologia.
Ovviamente, sono collezioni antiche: in genere, si tratta di reperti ottocenteschi. Spesso però si trovano cose anche dei primi decenni del Novecento, soprattutto sifilitici, tubercolotici e malati di malattie infettive ormai esotiche e di malattie professionali che oggi non si vedono più.
Appunto: che oggi non si vedono più.
Una visita a una collezione di anatomia patologica è soprattutto un viaggio in un altro paesaggio umano: quello di un tempo, quello dei nostri nonni quando erano giovani, cioè quello che, più o meno, ha cominciato a cambiare a metà del secolo scorso.
Era un paesaggio in cui capitava frequentemente di incontrare uno storpio, uno con il corpo deformato da un’artrosi, dalla tubercolosi o dalla sifilide, un bambino rachitico o con l’idrocefalo, o un giovane adulto con il viso deturpato, con ossa, articolazioni e pelle visibilmente alterate, con malattie non curate e cronicità invalidanti che non uccidevano direttamente né in fretta, ma devastavano la vita di molti sotto gli occhi di tutti.
Un simile paesaggio umano lo potete immaginare se vi capita di leggere uno di quei registri impiegati dai medici militari per arruolare i soldati per la Grande Guerra. Su dieci ragazzi provenienti dalle zone rurali d’Italia (sì, ragazzi: i cosidetti ragazzi del ’99, arruolati nel 1917, a volte partivano senza aver compiuto diciotto anni) ne troverete almeno cinque o sei definiti con dentatura guasta, poi ci saranno gli storpi e i gobbi: quasi tutti avranno altezze inferiori al metro e sessanta e potete immaginarveli magri e malnutriti senza paura di sbagliare di tanto. Ovviamente, molti di loro li troverete analfabeti, ma questa è un’altra storia.
Un secolo fa, il paesaggio umano era questo. Oggi tendiamo a dimenticarcelo e anche i nostri nonni, che sono i più sani e i più forti della loro generazione (altrimenti non sarebbero vivi oggi), se lo sono visto cambiare sotto gli occhi nel corso di una vita e forse non hanno nemmeno voglia di raccontarcelo. Ma il nostro corpo era diverso.
Perché quando la medicina non poteva curare le infezioni, né tantomeno prevenirle, e quando la maggioranza della gente era povera, malnutrita e ignorante, non solo si moriva di cose che oggi non ci fanno la minima paura. Ma si rischiava anche di diventare brutti e deformi, e si era circondati da altri brutti e deformi.
E non è stata la cosmesi o l’architettura a migliorare il nostro paesaggio. È stata la medicina.
Ecco: quando sento i miei coetanei esibire una sciocca diffidenza nei confronti della scienza, e aggrapparsi a informazioni ciarliere da signora-del-pianerottolo-accanto versione 2.0, quando li sento dire che gli antibiotici no, perché indeboliscono il sistema immunitario (?!) e un tempo si mangiava meglio e più naturale, li porterei per mano a fare due chiacchiere con qualcuno dei signori qui sotto e con i loro genitori esposti nelle bacheche accanto: ragazzi di trent’anni morti per malattie che nessun medico ormai vede più.
(Questa foto l’ho scattata io – con il telefono, mi perdonino i fotografi veri – al Musée Dupuytren di Parigi. Il curatore, con cui ho chiacchierato fino alla chiusura del museo distraendolo dal suo studio di una tibia mangiata dalla sifilide terziaria, mi ha raccontato con molta serenità del paesaggio umano descritto dai suoi seimila, circa, reperti. E ci ha tenuto a dire che tutti, lì dentro, meritano il nostro rispetto. Come tutti gli esseri umani, ha aggiunto. Continuando ad agitare la sua tibia.
E anch’io posto questa foto ricordando che ogni essere umano merita rispetto, compresi questi bambini, che fino a poco tempo fa venivano chiamati mostri, e compresi i loro anonimi e dimenticati genitori delle bacheche accanto).
(Addendum per i precisini: questi bambini sono quasi tutti malformati e oggi si tende a non farli nascere più perché destinati a sopravvivere poche ore soltanto. Non hanno malattie particolari oggi prevenibili. Solo pochi di loro hanno malattie infettive trasmesse in utero dalla madre. Quindi questa foto potrebbe apparire fuori tema. Preciso di averla scelta perché quelle dei corpi adulti non mi sono sembrate altrettanto eloquenti e soprattutto perché quando le ho mostrate agli amici sul display del telefono ho notato reazioni di pesante disgusto, e non è questo il sentimento più vicino a quello che spero di evocare con questo post).